“Achei, potete andare superbi delle vostre lance vittoriose, non certo del vostro cuore”. Questo il grido di Ecuba di fronte all’orrenda morte del piccolo Astianatte, questo il grido di condanna della guerra, di tutte le guerre del mondo, levato alto al cielo dalle donne troiane.
Gli uomini sono stati uccisi, la città è in fiamme, morte e distruzione, dolore oltre misura ovunque. Solo le donne sono rimaste. Madri, figlie, spose, tutte si stringono attorno ad Ecuba, la vecchia madre regina, doloranti testimoni di un patire infinito, in attesa di essere deportate e fatte schiave, votate all’infamia finale, corpo violato dai vincitori della Storia.
Ma proprio al loro pianto, alla loro voce, corale e polifonica, è affidata una diversa lettura della Storia. E’ la voce di chi sa che il mare del dolore annulla vinti e vincitori, e che la vittoria è priva di significato nell’insensata follia della guerra. Se le donne troiane piangono i loro morti, altre donne soffrono in terra di Grecia aspettando invano il ritorno dei loro uomini caduti in battaglia, altri figli aspetteranno inutilmente il ritorno dei padri.
La vittoria porta bottino, ori, orgoglio della conquista, ma ai pochi spietati uomini di potere che dispongono delle vite altrui si contrappone la sorte dei tanti – da una parte e dall’altra - che hanno perso la vita, e macchiato la terra, inutilmente, del molto sangue versato. I greci invasori “sono morti per niente”, per una stupida guerra, e gli eroi troiani caduti per difendere la città hanno consumato un sacrificio che ha aperto voragini di dolore. Il lutto delle perdite resta inconsolabile, ma ancor più lo è l’orrore dei gesti infami che la violenza reca con sé: l’assenza della pietà, la crudeltà gratuita, lo sfregio ai vinti a negazione della dignità umana.

Una condanna radicale alla guerra, e alla sua inutile violenza, è dunque la risposta delle donne di Troia, e con loro, di tutte le donne, di ieri, di oggi, di sempre. Perché altro è lo sguardo femminile sul mondo, originato da un differente sentire e un differente sapere, che fa della vita e delle sue speranze il più grande dei tesori. In Ecuba parlano tutte le madri in lutto. Parla la donna mater-materia nutrice di vita, lo sguardo rivolto ai figli e alle figlie, e al loro futuro, parla il sapere femminile del dare la vita, dell’averne cura, farsi nutrimento, farsi terra, il sapere della tenerezza, di chi ha saputo gioire della tenera bocca e del tenero sonno di un bambino, del tenero soffio della sua pelle, del grido allegro delle fanciulle in festa, delle promesse d’amore degli sposi.

Questo sguardo sulle cose e sul mondo così radicalmente altro, che oppone le ragioni del cuore alle ragioni della forza, il linguaggio della pietà ai rapporti di dominio, è la vera regalità delle donne, che nemmeno il più imperioso dei comandi può loro strappare. Umiliate e offese, imprigionate, schiave dell’oppressore, da Euripide in poi la voce femminile continuerà a far sentire la sua forza, la sua fierezza, in una sempre rinnovata creazione di significati e di azione, contro la violenza e l’offesa alla dignità del vivere.
Il canto di dolore si leva in alto, su dalla spina dorsale, la testa si solleva da terra, per dire no a quanto ha portato frutti di morte e umiliazione. Non posso tacere, afferma Ecuba, e con lei Cassandra, Andromaca, e con loro le donne sopravissute al genocidio armeno, le donne afghane, e tutte le donne del mondo. Le loro grida ancora trafiggono la tela del tempo.
(Loretta Scarazzati)

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